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 "Chi è la bestia? Manson vs Bugliosi", che al teatro romano fa il suo debutto nazionale dopo essere stato rappresentato sotto forma di corto al Bellini di Napoli, per le semifinali del premio Scenario 2019, mette in scena appunto il processo contro Charles Manson. Da una parte il guru leader della tristemente celebre "Famiglia", accusato e poi condannato come mandante degli omicidi Tate e La Bianca, perpetrati dalle ragazze sue seguaci soggiogate dal suo carisma. Dall'altra Vincent Bugliosi, il pubblico ministero che lo portò alla sbarra.

Non si tratta, beninteso, di un resoconto stenografico delle udienze: "Non volevo realizzare un documentario dal vivo sul processo Manson", sottolinea infatti Emanuele Bilotta, autore e regista della piéce. Piuttosto, a scontrarsi sul palco non sono soltanto accusato e accusatore, ma anche i due mondi, i due immaginari dei quali i personaggi fanno parte. L'America repubblicana e fieramente borghese di Nixon contro la gioventù ribelle e sognatrice che in quegli anni si opponeva alla guerra del Vietnam e inneggiava alla musica, al sesso e alla droga.

Il Manson che Bilotta dipinge è "fisicamente agli antipodi con l’originale: alto, biondo e con gli occhi chiari", interpretato efficacemente dal fisico da danzatore di David Capoccetti. Alberto Brichetto incarna il pm Bugliosi, mentre in mezzo c'è la brava Ludovica Resta che riesce a suddividersi credibilmente tra i due ruoli di Susan Atkins e Linda Kasabian, testimoni chiave del dibattimento. Così, con il prosieguo della narrazione, che dal racconto delle stragi si sposta gradualmente in tribunale e nel frattempo esplora anche i ricordi e le ossessioni dei protagonisti, emerge una figura di Charles molto meno piatta e scontata di quel simbolo che è finito per diventare nel corso degli anni.

Un Charles intrinsecamente contraddittorio, che combatte contro la società ma è allo stesso tempo un frutto delle sue ingiustizie, che predica l'amore libero ma intende raggiungerlo attraverso azioni di odio e di morte. Che viene giustamente condannato come sanguinario criminale, ma intanto a giudicarlo è un sistema che, almeno a livello morale, non è in fondo meno colpevole di lui.

Fabrizio Corgnati

Scritto e diretto da Emanuele Bilotta, "Chi è la bestia?" debutta in prima nazionale al Teatro Trastevere di Roma con sei repliche che vanno dal 26 novembre al 1 dicembre 2019. Il processo per i tristemente celebri omicidi "Tate/La Bianca" viene portato in scena su tre diversi piani esistenziali per altrettanti attori.
Da un lato abbiamo il PM Bugliosi, interpretato da Alberto Brichetto: inflessibile, professionale, uomo tutto d'un pezzo e ligio alla legge e al dovere, alla moralità e al buonsenso. Suo contraltare sotto ogni punto di vista è David Capoccetti, nei panni di un convincente Charles Manson, il noto criminale statunitense mandante di diversi efferati omicidi e, che lo si voglia o no, figura diventata negli anni un vero culto, o quasi. Nel mezzo, Ludovica Resta, nel duplice ruolo di Susan Atkins e Linda Kasabian: ed è proprio all'attrice che spetta l'onere e l'onore di trovarsi in mezzo al fuoco incrociato degli altri due e insieme raccordarli così da garantire unità e coesione drammaturgiche. Attraverso di lei si realizzano le sovrapposizioni attoriali, temporali ed esistenziali. Da un lato è ben evidenziata la monolitica razionalità di Bugliosi, dall'altro l'onirica ma imperativa presenza di Manson, più vero nella mente dei suoi adepti che nella realtà, e tanto più vicino quanto distante, tanto più influente quanto inesistente.
Si distingue sin da subito nell'approccio di Bilotta il tocco di chi conosce e insieme ama il proprio mestiere. Innanzitutto, quest'opera in atto unico ha il grande pregio di trasformare l'artigianato in arte facendone sapiente uso: poche musiche scelte ad hoc e ancora meno oggetti di scena bastano a restituire al pubblico in sala l'idea, le sensazioni e le suggestioni di un intero mondo, fatto di rivoluzioni culturali e figli dei fiori, di guerre in Vietnam e contestazioni, di sessualità promiscua e galleggianti episodi in slow motion al sapore di allucinogeni fine anni ‘60.
La tecnica e l'accosto sono nettamente cinematografici, le atmosfere evocate con precisione.
Gli attori sono immersi nel proprio ruolo e riescono ad agganciare lo spettatore sin da subito. Così immersi da risultare quasi un peccato che, rapito in estasi e al servizio della naturalezza del suo personaggio, Capoccetti indulga un po' troppo spesso in inflessioni chiaramente riconducibili al dialetto romanesco che rischiano di decontestualizzare l'atmosfera altrimenti resa in maniera molto efficace. Per il resto è però impeccabile, nato per interpretare Manson: ingombrante, invadente, irriverente, scollato dalla realtà pur con tutta una sua logica, perfetto nelle movenze e nell'estetica quasi androgina, veicolo di un Eros palpabile che però trascende il corpo per aspirare a ideali, per quanto distorti, molto più alti, come l'apocalittico avverarsi di deliranti profezie bibliche stornellate a ritmo di musica country con l'accompagnamento della sua chitarra sgangherata.
Si avverte la sensazione di una lieve battuta d'arresto tra la metà e i tre quarti dell'esecuzione, forse per una subentrata staticità registica, forse perché si vorrebbe una maggiore presenza e interazione fisica di Bugliosi sulla scena, che per quanto efficace nel suo ruolo di pilastro di riferimento per la moralità e la razionalità a volte pare quasi ‘sprecato' nell'attendere da un lato e in solitudine il consumarsi dell'intesa tra gli altri due.
Il risultato viene recuperato e portato a casa egregiamente nei monologhi finali di Capoccetti/Manson, che contorcendosi sul pavimento, sulla sedia o nell'aria, schiaffeggia pesantemente non solo il PM ma anche un moralismo e un sistema che non si limita certo alla società WASP di mezzo secolo fa ma anche a parte del mondo che abbiamo davanti ai nostri occhi oggigiorno e in cui tutti siamo immersi.
Il tutto convogliato da un testo sorprendentemente equilibrato, che riesce a non scadere nel perbenismo moraleggiante ma neppure dipinge Manson come un qualche modello da celebrare o imitare ciecamente. A tale proposito un'ulteriore nota di merito in clausola, ossia l'uso intelligente e professionale che il testo fa della violenza e della fisicità, evocate di sfuggita, suggerite appena nella loro forma e fase più inquietante, ossia il completo straniamento dalla realtà in cui potrebbe accadere letteralmente di tutto.
Un lavoro coraggioso, inusuale, che soddisfa le aspettative e lascia allo spettatore un importante bagaglio di contenuti ed emozioni su cui meditare nella sua intimità.

Maurilio Di Stefano

Un prologo metricamente scandito dalla percussione della cassa armonica di una chitarra usata come bongo. Charles Manson non aveva la stoffa di Bob Dylan o di John Lennon. La musica non era di certo la strada maestra per passare alla storia. Carismatico e narcisista, non riuscì a fare un uso creativo delle regole che ordinano la convivenza civile. Magari sarebbe stato un ottimo critico d’arte, pronto a trovare punti d’incontro tra l’“Apocalisse”  i The Beatles. Accusa i suoi contemporanei di essere pessimi ascoltatori. Ma la musica dei suoi idoli fu inarrivabile per le sue capacità di compositore. Con la lucidità che spesso contraddistingue i visionari, Charles Manson non produsse un’opera d’arte. “Look at your love”, “The shadow of your smile” e “People say I’m no good”, sono tre canzoni composte dal serial killer che fanno parte della colonna sonora di “Chi è la bestia?”. Sono anche rese meglio dal performer.

Charles Manson scelse una strada terribile per passare alla storia.

Anti-eroe, artista e politico insieme. Gli omicidi indotti dalla sua capacità suggestionante sarebbero diventati un monito per ricordare a certi privilegiati dell’esistenza degli ultimi. Per le sue capacità oratorie, in grado di aggirare persino gli psichiatri, avrebbe potuto puntare sul cinema. Lo ricordiamo perlopiù come si mostrava a un passo dalla morte, di novembre 2017, vecchio e imbruttito dal carcere e dalla malattia. “Mindhunter” e “C’era una volta a… Hollywood” è Damon Herriman a rappresentarlo. Bilotta fa una scelta completamente diversa rispetto a Tarantino. Rende visibile il carisma di Manson con la fulgente bellezza di David Capoccetti. Recuperando l’etimologia greca del teatro, che vede la vista come organo primario di fruizione del dramma, il regista sceglie di rendere epidermica l’attrattiva del serial killer di Cincinnati.

Corpo e voce di Charles Manson calcano il palco in senso metaforico e reale

L’identità del serial killer, sedicente artista e visionario in scena da metaforica si fa reale, nella ricostruzione della testimonianza delle testimoni chiave del processo. Ludovica Resta impersona sia Linda Casabian che Susan Atkins. Quest’ultima è caratterizzata in preda ad altalene emotive, tra momenti di esuberanza incontenibile e di indifferenza totale. «Charlie non poteva leggere i miei pensieri, lui era la mia mente». Questa è la spiegazione udita da Bugliosi, il pubblico ministero Gliela dà direttamente Sadie, nomignolo con cui Charles Manson era solito chiamare Susan. Spogliata del suo stesso nome, anche i tempi della respirazione sono non sono gestiti in autonomia. Lei è “Sexy Sadie”, che prima o poi si apparterrà. E se è Charlie a cantarglielo, deve essere vero! Risulta vagamente stucchevole la vocalizzazione bambinesca che accompagna l’interpretazione della Resta.

Bilotta sembra abbia disegnato una linea di cesura tra le interpretazioni dei personaggi.

La caratterizzazione di Manson e Susan Atkins prende una direzione molto diversa rispetto a quella di Linda Casabian e Walter Bugliosi, quasi ingessato nella severità con cui lo restituisce Alberto Brichetto. La moltitudine che ha abitato lo spirito del protagonista cerca di tornare sul palco attraverso una rappresentazione caleidoscopica. C’è stato un lavoro attoriale molto serio da parte di Capoccetti sul personaggio, che cambia forma, postura e atteggiamenti a seconda di chi lo guardi, dalla scena o dalla platea. Il mandante degli omicidi di Hollywood è un trasformista.

L’artista, il politico e l’eroe vendicatore convivono nel corpo di Charles Manson, supportandosi a vicenda

Nell’ultima fase della sua vita, l’arte prende il sopravvento. La musica sembra sia stato il movente ultimo dell’induzione della famiglia che si era costruito a compiere le stragi. La musica voleva essere la soluzione finale per rimediare all’indigenza. La musica è la sostanza scenica con cui “Chi è la bestia” si realizza. Spirito, anima, foriera di verità. È un impasto antropologico complesso che sintetizza richiesta di giustizia e tendenze millenaristiche. La musica è colonna portante della storia quanto della scena, sembra suggerire Bilotta. Perché spingerebbe il razzista di Cincinnati a riformulare il mondo a propria immagine.

La schizofrenia che investe la caratterizzazione Charles Manson trova anche un’altra direzione esegetica.

Sono luci e linee geometriche disegnate da Capoccetti nel suo vagare sul palco a indicare in che veste bisogna considerare Charles Manson sulla scena. Risulta dolce e tenero con Linda, sensuale con Sadie, un lucido visionario pieno di tic con Bugliosi. Il potere magnetico esercitato dalla sua figura è favola epica nel primo caso, relazione erotica e musicale nel secondo e politica giustizialista nel terzo. Il serrato confronto finale tra Manson e Bugliosi sul movente delle stragi è costruito in un dinamismo caricato sulla prestanza fisica dell’attore. “Chi è la bestia?” ha come fonte primaria la stessa di “Mindhunter”: la storica intervista dal carcere realizzata da “60 minutes Australia”. Tra “The Star-Spangled Banner” e “Yankee Doodle” come risposta irriverente, è condensata la risposta alla domanda “Chi è la Bestia?”.

Emanuela Colatosti

Il Teatro Trastevere, un piccolo luogo incantato nel cuore dell’omonimo quartiere della Capitale, dove ancora sperimentare è permesso, consegna al pubblico romano lo spettacolo “Chi è la bestia? Manson vs Bugliosi”. Si potrebbe pensare all’ennesima trasposizione teatrale dello storico processo contro uno dei criminali più efferati d’America, Charles Manson, invece “Chi è la bestia? Manson vs Bugliosi” è qualcosa di più.

 

Scritto e diretto da Emanuele Bilotta, lo spettacolo tende a focalizzare l’attenzione dello spettatore non tanto sull’efferatezza dei crimini commessi da Manson e La Famiglia (così aveva ribattezzato i suoi accoliti), ma sulle conseguenze e gli effetti che la società produce su qualsiasi individuo. Manson non ha una buona istruzione, sa a malapena leggere e scrivere, ma ha delle idee. Idee che si sono formate durante la lunga permanenza nelle carceri a stelle strisce, all’interno di quel Sistema fatto per proteggere gli individui e la società.

 

A contrastare e smontare le tesi e le elucubrazioni del galeotto, un uomo di legge, l’avvocato Vincent Bugliosi, rappresentante e fervido credente nel Sistema. Ad aiutarlo (più o meno consapevolmente) due donne della Famiglia: Susan Atkins e Linda Casabian. La prima totalmente devota a Manson e sostenitrice dell’imminente scatenarsi dell’Helter Skelter, la guerra per un nuovo mondo profetizzata da Manson; la seconda una madre spaventata ed affascinata dal criminale, testimone chiave nel processo.

 

Protagonisti della rappresentazione David Capoccetti fenomenale nella sua interpretazione della lucida follia di Manson, Alberto Brichetto totalmente assorto nel ruolo dell’integerrimo pm Bugliosi e Ludovica Resta abilissima a cambiare personaggio e vestire i panni sia di Susan che di Linda. Come spiega l’autore Emanuele Bilotta: “Questo è uno spettacolo che non vuole dare risposte, ma lasciare aperte più domande possibili. Coscienti che spesso il male è un riflesso del quotidiano vivere, ma altrettanto spesso il Sistema diviene un alibi per demolire certezze”.

 

La pièce, coinvolgente sia per le interpretazioni degli attori, che si alternano magistralmente in canti, balli, dialoghi serrati ed atletiche movenze, sia per l’uso degli spazi scelto dal regista (in “Chi è la bestia? Manson vs Bugliosi”, infatti, tutta la sala del teatro e non solo il palcoscenico sono luoghi della rappresentazione), sa trasmettere una speciale energia. I protagonisti credono in ciò che stanno facendo e questo arriva in modo assoluto al pubblico presente.

 

In scena dal 26 Novembre al 1 Dicembre, nel suo debutto nazionale, presso il Teatro Trastevere, è stato rappresentato in forma di corto al teatro Bellini di Napoli, in occasione delle semifinali del premio Scenario 2019. Da non perdere per tutti coloro che credono ancora che le idee abbiano un peso e non hanno paura di confrontarsi con qualcosa di nuovo.

Valeria Bollini

 

 

In replica dal 21 maggio al 2 giugno 2019, a distanza di un anno e a grande richiesta torna al Teatro Stanze Segrete di Roma questa pièce veramente particolare dedicata all'evocazione delle sensazioni, dei sentimenti e del cupo dramma personale vissuti da Gabriele D'Annunzio quando un incidente aereo lo costrinse a cecità temporanea.

Il testo, adattato da Alessandro Battafarano, rivive nell'interpretazione di Alberto Brichetto e Ludovica Resta per la regia di Emanuele Bilotta.

Senza ombra di scenografia e col solo aiuto del nudo pavimento, i due attori, lui bendato per tutto il tempo e lei ad assecondarlo in ogni disparato capriccio, ingaggiano una danza che si trasforma sin da subito in lotta a corpo libero. Una lotta a piedi nudi che si protrarrà per tutta la durata della performance, in cui i momenti di tregua, se ne esistono, sono più istantanei che temporanei, più illusori che ristoratori.

Si opta per un testo che è più una rapsodia di brani poetici che una vera e propria narrazione cronologica. In tal senso è favorito nella fruizione lo spettatore che riesce sin da subito a estraniarsi dal messaggio specifico delle singole frasi e a lasciarsi guidare dal suono sferzante delle parole in un'esperienza che è interamente sensoriale, fatta di corporalità, di fisicità ingombrante, di disfatta sensualità.

La performance dei due attori, soprattutto del protagonista Brichetto, è sotto ogni aspetto un'estenuante fatica che li lascia palesemente spossati, e lo spazio intimo di Stanze Segrete aiuta non poco il pubblico a sentirsi addosso questo teatro fatto di sudore, saliva e vene a fior di pelle.

Ad avvicendarsi è come fossero diversi quadri, episodi in cui i due attori si incastrano e si separano, si cercano e si rifiutano, si inseguono e si braccano, maschio e femmina, Io e alter ego, Yin e Yang, vestito bianco con benda nera e vestito nero con benda bianca. E ogni episodio è un amplesso, ogni amplesso una violenza, in cui non mancano mai un dominatore e un dominato, un prevaricatore e un sottomesso.

Tra estasi letteraria e possessione demoniaca, si attraversano visualmente le terre più estreme e morbose dell'animo umano, tra strangolamento e soffocamento, tra frustate e camicie di forza, fino all'offerta al pubblico di un seno nudo, a metà tra il dono e il sacrificio.

Una menzione di merito va alla colonna sonora eseguita in scena dal vivo da Marcos Vicari che, utilizzando la chitarra come fonte di effettistica ancor più che di melodia, si serve di sonorità e armonie al sapore di rock progressive italiano anni Settanta per sposare l'ossessività e la ripetitività dei mantra che i due attori cantilenano ora rapiti ora affannati, mai del tutto rilassati.

Un'ora di spettacolo che potrebbe non incontrare il gusto della totalità del pubblico, non a caso si raccomanda la visione ai maggiori di 14 anni, ma che vale sicuramente la pena di affrontare; non fosse altro perché, tra i diversi risultati che porta a casa, figura e risalta quello di lasciare una vivida, palpabile sensazione sulla pelle dello spettatore, che si sente quasi marchiato a fuoco sulla carne viva esposta a tanta intensità, e questo è qualcosa che il teatro di certo dovrebbe eppure non sempre riesce a fare.

Maurilio Di Stefano

Ho lasciato vagare nella mia mente questa riflessione per portarla alla luce solo nel momento di un importante risveglio.

 

 

 

Non me ne vorrà l'accorto regista per la lunga attesa, ma l'attendere è anch'esso espressione d'arte, capirà, vista la sua grande eleganza di pensiero, perché ciò che ho meditato dentro me, non appena finito di vedere il suo NOTTURNO-SCANDALOSO D'ANNUNZIO è stato "questo è rinascere tra frammenti d'anima".

 

 

 

La complessa ed armonica creazione scenica sulle Offerte dannunziane del NOTTURNO diretta da Emanuele Bilotta, dal gusto estetico molto raffinato, è stato uno degli spettacoli della scorsa stagione, che ha marcato maggiormente il mio percorso riflessivo, e per la sua forza espressiva è stata una tra le più potenti pièce a cui ho assistito.

 

 

 

Là, nel TEATRO STANZE SEGRETE, affascinante ed insolito spazio della capitale, lo sguardo, l' ascolto, il sentire si sono quasi persi, staccati, quasi frantumati dentro ad una messa in scena elevata e rarefatta di parole, gesti e suoni che hanno saputo vagare, lambire, vicini a spettatori prima sfiorati e poi quasi inghiottiti da un cammino di profondità evocative.

 



 

Nell'atto unico, ben adattato da Alessandro Battafarano,  nato da una lunga ricerca e da varie fasi lavorative, seppur alcuni passaggi erano perfettibili, l'energia ha sovrastato tutto, quella voglia e foga di narrazione interiore ha riempito ogni dove, ogni tempo s'è disintegrato.

La musica interpretata dal bravissimo chitarrista Marcos Vicari è scesa, a tratti levigata, da un suo privilegiato luogo, estraneo ed allo stesso tempo parallelo e sincrono. Appartato commentatore dalle particolari intuizioni sonore, ha sottolineato e riempito l'immensità delle parole, raccolte dentro al pregnante desiderio di un D'Annunzio, privo della vista, ma con il suo cuore di "sommo poeta" gravido della necessità di rimembrare e raccontare  al di fuori di ogni possibilità materiale, al di là di ogni concreta inabilità.

 

 

La sensualità, la forza e la dolcezza sulla scena si sono fatte sovrastare dal frusciare intimo dei pensieri tra le carte; l'anima bendata è parsa scrutare, sentire e perdersi nella bella e vivace interpretazione di Alberto Brichetto. Tutto il passato s'è coniugato al presente,  dentro ad un piovere metaforico di pulsioni, dolcezze, carezze, sensazioni e sentimenti evocati tra i movimenti e le espressioni delle varie forme femminili ben impersonate da Ludovica Resta.

 

 

 

Osare, sperimentare, andare oltre, essere anima... elementi da cui ricominciare sempre.

 

 

Complimenti.

Andrea Alessio Caravetta